Mi manca il coraggio di fare il gran salto

Chi soffre d’ansia di lasciare il nido dopo i trent’anni lamenta sempre di non averne il coraggio. Anche solo immaginarlo è molto difficile, infatti, genera ansia. Al pensiero s’interpone immediatamente un sentire che richiama l’immagine di un fumo denso o di uno spazio immenso in cui la persona si sente smarrire.

Nella loro storia, invece, c’è coraggio da vendere, che ha bisogno di essere riconosciuto: “Da bambina dovevo fare molta attenzione a come giocavo, a cosa dicevo, a cosa volevo per non innervosire o per non fare arrabbiare i miei. Già loro non andavano mai d’accordo.”

Tutti i figli  amano i loro genitori, anche quando sono incompetenti, violenti, intrusivi, ricattatori, impazienti, profondamente tristi o pieni d’insicurezze. Rinunciano alla loro spontaneità pur di rendere felice o vivibile la vita in casa perché hanno bisogno di loro come l’aria.

Nessuno si rende conto che non hanno un’infanzia a loro misura e che sono abilissimi osservatori dei bisogni degli adulti. E’ così che si sviluppa il coraggio di vivere come grandi, spesso genitori dei propri. “Sapevo tante cose dei miei, fin troppo; invece se ero bravo in qualcosa, era scontato; sempre no a ciò che m’interessava, non sarei stato capace, per cui ho fatto da me”. Tutto questo come chiamarlo: coraggio, forza interiore, volontà?

Capire e ascoltare le frustrazioni e i problemi dei grandi in tenera età e nell’adolescenza comporta una visione degli altri e del mondo molto triste, pericolosa e insicura. Se si volesse rappresentare con il disegno di una casa questo vivere, come sarebbero le linee, i colori, le dimensioni? Si riesce a percepire l’ansia.

Si può solo restare attoniti e commossi dinanzi la solitudine e lo sbaraglio nel quale questi giovani adulti sono cresciuti e riconoscere come siano stati bravissimi ad affrontare situazioni di immenso imbarazzo o di pericolo per la loro stessa vita. Ora si può sentire il loro immenso coraggio!

Non si tratta di trovare dei colpevoli, poiché i familiari fanno sempre, sempre, il meglio che riescono.

Infatti, nel corso della vita, ogni famiglia può essere colpita da vicende in grado di sconvolgerla: una malattia grave, cronica, invalidante; la morte di un membro della famiglia, la perdita di uno status economico, dover emigrare, ecc.. Anche i genitori più forti, più equilibrati, amorevoli e presenti, essendo esseri umani, sono travolti e schiacciati. La vicinanza della comunità, spesso, non c’è o svanisce in poco tempo e, nella solitudine, è dura per tutti. Non si deve mai colpevolizzare nessuno. In un processo terapeutico è fondamentale giungere alla comprensione profonda, per continuare a voler bene, comprendere, perdonare e custodire anche la sofferenza famigliare.  E’ importante arrivare a valorizzare le proprie origini e ad essere orgogliosi della forza sviluppata nelle avversità. Ciò può essere fattibile all’interno di una  relazione di stima, di ascolto profondo, di risonanza emotiva, come avviene in un processo psicoterapeutico, nel quale, tutto il dolore, attraversato insieme, si trasforma in speranza e nel coraggio di compiere il gran salto tanto bramato.

L’ansia di lasciare il nido

Continua la riflessione sull’ansia che caratterizza sempre più la vita di oggi con un’ottica psicosociale. Abbiamo visto che il corpo è il luogo in cui abitiamo e che è registra e risponde a tutto ciò che lo circonda. L’ansia come implosione vitale, che dal profondo di noi stessi ci porta a scoprire, sia chi siamo, sia a riconoscere il bisogno di relazioni vere in contrasto con quelle attuali.

“Sto malissimo, ho molta ansia e il principale problema è che mi manca il coraggio di lasciare la casa dei miei e di andarmene”.

“Ho un lavoro stabile da anni e potrei  farcela benissimo economicamente; sul lavoro prendo ogni giorno decisioni importanti, rivesto delle responsabilità non indifferenti. Potrei  cercare un lavoro, ho studiato, ma, se penso realmente di andarmene dai miei, mi prende l’ansia”. “Non ne parlo, mi sentirei malissimo, che imbarazzo”.

Questo è’ un sentire comune tra molti giovani adulti, donne e uomini più che trentenni che convivono con tale malessere silenziosamente. L’ansia va crescendo e finisce per scuotere così forte il loro corpo che non si può più nascondere. Infatti, diventa visibile agli altri dai sintomi fisici e talvolta arriva a generare il terrore di impazzire.

“Non ne posso più di vivere con i miei, ho alle spalle delusioni amorose che bruciano ancora; ho perso quel familiare che era il mio sostegno, la mia sicurezza e non l’ho superato”. Sono le prime espressioni che accomunano l’esistenza di chi è pervaso dall’ansia di lasciare il nido in età matura.

Ammettono che hanno delle comodità importanti, ma il prezzo è carissimo: posticipare la propria crescita personale e rinunciare al naturale bisogno di autonomia e di libertà. Si sottraggono a compiere i passi evolutivi necessari per conoscersi profondamente e per sentirsi degli adulti sicuri.

L’ansia c’è in plurimi movimenti vitali: nella paura di viaggiare e di conoscere posti e gente nuova; nel disagio nelle relazioni sociali che mancano; nella rabbia quasi incontenibile per i bulli, gli sfacciati e i maleducati; nella rabbia verso se stessi per essere così limitati.

“Parlarne a casa non  riesco, non me la sento, non mi capirebbero”. “I miei non mi dicono niente, non si accorgono che sto male?”; “Loro sono usciti da casa ai vent’anni, possibile che non si facciano qualche domanda su di me?”; “ Se dicessi che me ne vado non so cosa succederebbe; mia madre starebbe malissimo; mio padre credo non direbbe niente; non mi appoggerebbero di sicuro”. “ Mio fratello o sorella, se ne frega dei problemi di casa e se n’è già andato tempo”.

Sentirsi non visti, incompresi e scontati in casa, avere voglia di prendere tutto e di fuggire, sono ulteriori vissuti in comune tra chi soffre l’ansia di lasciare il nido.

Perché, ci possiamo domandare, sono ancora tanto importanti e decisivi il desiderio e il bisogno di essere legittimati e compresi in famiglia nel proprio processo di emancipazione?  Perché è sempre, sempre, stato negato. Per divenire autonomi dobbiamo prima essere dipendenti da qualcuno che con amore sappia portarci il mondo nel tempo dell’infanzia e dell’adolescenza.

Per volare e lasciare il nido bisogna essere accuditi bene.  Il nido in cui si nasce e si cresce è l’Ambiente primo affinché il corpo, sede e custode di tutte le esperienze, divenga la propria casa solida in cui abitare.

Si tratta di una sofferenza profonda; c’è sempre un carico di profonda solitudine che è invece percepito come mancanza di coraggio.

Invece, in questi giovani c’è coraggio da vendere, e non solo. Continua..

 

Il malessere nell’ambiente lavorativo

Andare a lavorare e sopportare ogni giorno un superiore aggressivo e svalutante, sentirsi presi di mira come nei casi di bullismo nella scuola, può divenire un incubo.

Sempre più spesso le persone si rivolgono all’aiuto psicologico perché devono subire il maltrattamento nel  lavoro. Arrivano esaurite e non ce la fanno  più a sopportare i cambiamenti inferti nelle mansioni o nel ruolo; provano un carico psicofisico eccessivo; i sintomi che li preoccupano sono spesso l’insonnia, gli attacchi di ansia, sentirsi sopraffatti dalla paura, dalla rabbia o dalla disperazione.

Oggi, come può accadere ciò?

I progressi della conoscenza, dello sviluppo tecnologico, la maggiore educazione, le leggi e i diritti acquisiti, i valori fondanti di uguaglianza, libertà, giustizia, non bastano a garantire relazioni lavorative umane e dignitose? Perché si arriva a soffrire psicologicamente nel contesto lavorativo, nel quale si trascorre una parte significativa della vita?

La Psicologia della Gestalt, che osserva come i cambiamenti sociali sviluppino specifiche manifestazioni di sofferenze psichiche, riconosce nella perdita del senso del tempo e dell’ appartenenza (quel sentirsi parte di qualcosa di più grande di noi stessi )la perdita di ciò che ci rende umani: l’empatia. Quel sentire da dentro ciò che prova l’altro e reagire; come se quello che accade all’altro succedesse a me.

Nel vivere di corsa e votati al fare per essere qualcuno si  è stressati, non c’è tempo per ascoltarsi, né ascoltare e lasciarsi toccare emotivamente; così l’uomo finisce per relazionarsi con freddezza  e distanza emotiva sia nei confronti sia di se stesso, sia dell’altro.

Se recuperassimo l’ascolto del corpo, come unità che è sempre in relazione con tutto ciò che lo circonda, nei contesti  lavorativi, non solo inizieremmo ad aver cura del proprio benessere, bensì diverremmo consapevoli che noi stessi  influiamo nelle relazioni con i nostri atteggiamenti. Se l’ambiente lavorativo è “malato”, diviene ancor più essenziale imparare ad aver cura di se stessi per non diventare vittime, né carnefici.

Infatti, si può affermare che chi si mette in gioco per dedicare del tempo all’ascolto del proprio malessere attraverso un sostegno psicoterapeutico, riesce a individuare gli atteggiamenti che ha per stressarsi da solo,   scopre che nessun ambiente “malato” riesce a scalfire la propria forza vitale e la propria autostima. Inoltre, nei contesti insensibili,  inizia ad accogliere l’aridità di chi ha perduto o ha soppresso la propria umanità.  A maggior benessere personale può derivarne maggior apertura e disponibilità verso gli altri.

Tale concezione supera la visione individualistica dei nostri tempi e ci invita a sentirci parte attiva e costitutiva sia del malessere, sia del benessere sociale.

 

 

Il corpo è la casa in cui abitiamo

Quando il tempo del fare rallenta o si ferma, perché è giunto quello del riposo o del relax, molte persone sono assalite da un malessere che pervade tutto il corpo, ogni sicurezza evapora e sono in preda all’ansia.

Se il corpo è la casa in cui abitiamo perché improvvisamente trema, diviene fragile, insicura, inospitale?

A chi capita? Spesso ai giovani, alle donne e agli uomini molto responsabili o “di successo”, “ai bravi ”.

L’ansia è percepita dalla persona come un possibile infarto e ciò naturalmente terrorizza.

Per raggiungere il successo, diventare famosi e ricchi o per essere in grado di sostenere i carichi di responsabilità familiari, a causa di certi cambiamenti imprevisti nella famiglia, si cresce troppo in fretta, si diventa “grandi” bruciando tappe.

Come conseguenza del vivere così: o proiettati in un futuro migliore o a farsi carico dei bisogni altrui negando i propri,  il corpo/casa, organismo vivente e sempre in relazione con tutto ciò che lo circonda, vive e registra le tensioni, lo sforzo psicofisico, tutta la frustrazione, i bisogni e i sentimenti negati, la solitudine relazionale e affettiva.

Allora, il corpo che, in preda all’ansia,  sembra non reggere più, sta forse manifestando il suo limite di sopportazione del maltrattamento e della negazione di sé?

Quale rapporto abbiamo con le nostre emozioni  e con quelle altrui? Come trattiamo la nostra casa e il nostro quartiere del mondo/gli altri, di cui siamo parte costruttiva? Con quante persone ogni giorno scambiamo un sorriso, una parola, uno sguardo che dica: “ salve, buona giornata”? Se ci osserviamo solo per un giorno, constateremo che incrociamo molti corpi e non incontriamo molti sorrisi, nemmeno li doniamo; oppure non vengono ricambiati.

Chissà che l’ansia, questo profondo malessere, che improvvisamente  frena la vita quotidiana e che ci fa chiedere aiuto, sia un’implosione vitale, che dal profondo di noi stessi ci porti a riscoprire il bisogno umano di avere relazioni vere e di fiducia e di volerci davvero bene. Siamo fatti per essere felici e per vivere con gli altri. Continua…

 

L’ascolto del proprio corpo favorisce il benessere inteso come equilibrio biopsicosociale

Quando viviamo una situazione di piacere o di felicità, percepiamo dal nostro corpo un’energia vitale che si esprime in una gestualità  espansiva: braccia allargate, salti, grida, risate che ci mettono in relazione con chi è accanto a noi con sguardi colmi di luce, abbracci, strette di mani. Il mondo è bello, la vita è meravigliosa, ci sentiamo circondati dalla bellezza della natura; proviamo gioia, felicità, amore. Ci percepiamo in armonia con tutto ciò che ci circonda. E’ dal corpo che sentiamo tutto ciò, e non per un processo di apprendimento, è un sentire spontaneo che si manifesta.

Quando viviamo una situazione di tristezza o di dolore, ci sentiamo privi di energia vitale. Una sensazione di fatica e sfinitezza ci pervade  ed essa si esprime in una gestualità ridotta: braccia annodate tra loro, passi strascicati, mutismo, pianto o un tono di voce quasi impercettibile. Ci ritiriamo dalle relazioni e il nostro sguardo trasmette come ci sentiamo e come percepiamo in quella circostanza la vita: brutta, ingiusta, complicata; sentiamo sfiducia e indifferenza nei confronti di tutto ciò che ci circonda. E’ dal copro che sentiamo tutto ciò e spontaneamente.

Nell’estremo piacere o dolore possiamo renderci conto che il proprio corpo è la nostra casa, il luogo in cui abitiamo; un’unità, come ogni organismo vivente, che sente, registra e risponde continuamente, in modo globale, a tutto ciò che lo circonda.

Anche le scoperte scientifiche dimostrano che mente e corpo sono sempre interdipendenti e interagenti.  La scienza afferma che il corpo è un’unità costituita da sistemi biologici predisposti all’omeostasi, cioè a quell’equilibrio biopsicofisico sinonimo di salute. Per esempio: la Psiconeuroimmunoendocrinologia dal 1985, è la scienza che si occupa di studiare le basi biologiche della comunicazione tra sistemi endocrini, immunitari e psicologici. Riconosce l’organismo come un tutto unico, costituito da una rete integrata di autoregolazione che mira al mantenimento dell’omeostasi. Lo stato psicologico dell’individuo influisce o modifica il decorso di un evento patologico.

Purtroppo, abbiamo perduto l’ascolto del copro come unità che è sempre in relazione con tutto ciò che lo circonda e lo stile di vita che conduciamo non rispetta assolutamente la nostra natura.

Infatti, nella nostra vita caratterizzata dall’ansia, quale rapporto abbiamo con il nostro corpo? L’ansia è generata dalla preoccupazione di soccombere dinnanzi a tutte le richieste che provengono dalla vita familiare, sociale e lavorativa poiché, fondamentalmente, ci percepiamo soli. La perdita del senso del tempo e la vita di corsa negano i bisogni umani di appartenenza e di condivisione e, promuovono l’individualismo. Il sociologo premio Nobel Zygmunt Bauman, ha definito “liquida” la società occidentale attuale, proprio per queste caratteristiche psicosociali che stressano l’uomo.

Si comprende perché, dinnanzi ai sintomi ansiogeni (tachicardia, sudorazione, vertigini, ecc.)o dello stress (insonnia, mal di testa, dolori gastrointestinali, ecc.)li consideriamo come dei “rumori” scollegati dalla vita che conduciamo.  Infatti, andiamo dal medico, che consideriamo essere l’esperto del nostro corpo. Noi ci approcciamo come se fossimo degli informatori e la sintomatologia diviene soggetto principale. Ci comportiamo così perché concepiamo il corpo come un oggetto da riparare.

Si rifletterà sul corpo come casa in cui abitiamo; come organismo di relazione per eccellenza e predisposto per sua natura al benessere ; scrigno della memoria di tutti i nostri vissuti e fonte creativa di quelli presenti.  Il corpo anche come via per la cura della sofferenza psichica. Continua…

Essere figli di alcolisti: condizione drammatica che incide sullo sviluppo e sull’intera esistenza

Da L’ Azione, 12/02/2019

I genitori nell’infanzia e nell’adolescenza sono per i figli un porto sicuro nel quale  crescere con la certezza di essere amati, protetti e guidati. La famiglia è come un nido preparato per sviluppare l’autostima e le capacità per relazionarsi. Il padre e la madre rappresentano per i figli il loro primo mondo di riferimento per conoscere, comunicare e crescere con i valori necessari per far parte  della società  quando saranno  adulti.

Ai figli del alcolista è negato tutto ciò poiché l’alcool distrugge ogni porto, ogni nido. Diventati grandi si  ricordano la paura per il genitore soggiogato dall’alcol, la violenza verbale e fisica subita dall’altro genitore o da loro stessi; la vergogna di avere una famiglia impresentabile; le promesse deluse; i sentimenti ambivalenti di odio e di amore impossibili da comprendere.

Per sopravvivere i figli imparano  a essere invisibili, crescono in fretta. Rinunciano alla loro spontaneità, sono diffidenti, chiusi su se stessi e troppo autosufficienti. Ciò spiega perché con un genitore alcolista da adulti soffrono di un profondo disagio nelle relazioni interpersonali e per superare l’ansia o l’imbarazzo nelle situazioni sociali spesso ricorrono al alcool. Cresciuti come “camaleonti” hanno bisogno di imparare ad aiutare se stessi e a riconoscere quanto siano stati “troppo bravi”.

Ecco perché l’alcolismo è riconosciuta come una malattia che colpisce l’intero nucleo familiare. In Italia sono 772 mila quelle già colpite. Le cifre da sole non dicono nulla del malessere psicosociale di cui soffrono i figli. Molto spesso hanno terrore alla reazione di violenza che potrebbe scatenare se informassero il medico; i parenti, gli amici, la scuola. La famiglia è sola e non vede possibilità di soluzione.

E’ centrale riconoscere che il genitore è ammalato e che non dipende dal comportamento dei figli che si curi. Per questo è importante chiedere aiuto.

Dallo shopping all’alcool, pericolose dipendenze sostituiscono le relazioni

Da L‘AZIONE, 15/02/2019

Viviamo in una società consumistica che spinge a comperare prodotti sempre nuovi per sentirci qualcuno e felici. Facciamo spese innecessarie e  in certe occasioni, in cui ci si sente soli, lasciati, svalorizzati, insoddisfatti, ci procurano un momentaneo benessere.

Quando però si inizia a sentire un impertinente bisogno di  piacere spendendo è il segnale di un malessere psicologico che si sta manifestando così.

Purtroppo è molto difficile rendersene conto; spesso sono le persone vicine che iniziano a segnalare l’eccessiva spesa e le ricadute negative sull’economia familiare. Si giunge a un punto in cui c’è solo il pensiero dell’acquisto  e al posto del piacere c’è l’ansia. Una relazione assoluta con la spesa a discapito del logoramento delle altre relazioni e di tutti gli altri interessi. Si può dire di avere una dipendenza dallo shopping compulsivo. In forma simile si è dipendenti dal gioco d’azzardo, dal sesso online, dal alcol, dal consumo di marijuana.

Nella nostra società individualista, in cui avere vale di più dell’amicizia, della compagnia e dell’ascolto, tutti siamo nelle condizioni di soffrire di una dipendenza.

Essa maschera un bisogno di relazioni autentiche. Scoprire di soffrirne può dunque essere occasione per mettere in discussione la propria vita per riaverla.

Il primo passo è accettare di essere dipendenti  e non di avere un vizio; il secondo è rivolgersi a uno psicoterapeuta che possa aiutare per trasformare la sofferenza in vita vera.

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