É un bene per i figli diventare partecipi della malattia di un familiare

Quando la vita degli adulti dinnanzi una diagnosi infausta viene sconvolta, lo stesso succede a quella dei figli, non importa la loro età.

Se i grandi si sentono smarriti come possono continuare a sentirsi sicuri nei loro ruoli rispetto i più piccoli?

A causa del tabù sulle sofferenze psichiche e fisiche invalidanti, di cui vi sto parlando da un po’ di tempo, ci illudiamo che ciò non accada. Invece, è in questi frangenti che siamo interpellati a provare empatia, comprensione e a garantire ogni tipo di aiuto necessario a tutta la famiglia.

Spesso i familiari, con le buone intenzioni dettate e accettate socialmente, si comportano per preservare i minori dalla sofferenza e quindi inscenano per mesi ed anni una vita “normale” inesistente e involontariamente viene negato a loro ogni umano bisogno di una comprensione e di una elaborazione.

Di frequente nemmeno gli insegnanti vengono a sapere dei cambiamenti in casa e quindi la scuola non può accogliere lo studente con i suoi nuovi e impellenti bisogni.

La società, che considera la vulnerabilità umana come un problema, un inciampo nella corsa verso la propria realizzazione, finisce per essere indifferente ai cambiamenti nel comportamento di chi è ancora in fase di sviluppo.

Infatti, nel bambino avviene sempre una regressione ad una tappa anteriore. L’adolescente,  con le parole di una paziente, mette “i  ricordi, i suoi sogni e il bisogno dei coetanei, in tanti cassetti ben chiusi”. Ciò gli produce sgomento che può  sfociare in forme autolesionistiche o depressive.

Françoise Dolto, una psicoanalista francese che si è dedicata ai bambini, sosteneva che loro possono sopportare tutte le verità, mentre soffrono per le bugie degli adulti.

Ricordo due sorelline, di cinque e dieci anni, amorevolmente fatte partecipi dalla mamma e dal papà malato. Elaborarono, ciascuna a modo proprio, la malattia e la perdita del padre.

Andavo due volte alla settimana a dare sostegno psicologico alla famiglia. Quando entravo nella loro casa, anche nel tempo della maggior sofferenza, l’atmosfera emanava dolcezza, non c’era solo tristezza.

Giunsero a fare le domande “difficili”,  vennero  ascoltate le richieste di stare lì, di essere amate e di aiutare con i piccoli gesti.

Mi rendevo conto che aveva senso essere psicologa con le bambine attraverso il gioco, i  disegni, i racconti e vedere filmati o fotografie; con tutti e quattro nel facilitare i genitori a raccontare la storia della loro famiglia, come le figliolette fossero state tanto desiderate e come avessero portato immensa gioia e senso alla loro vita. Proprio mentre la malattia minacciava di portare via tutto era un bene consolidare le radici e l’amore tra loro.

I familiari travagliati perdono quel sentirsi sicuri dinnanzi i figli e il sostegno psicologico li aiuta a riappropriarsene, come avvenne allora ed altre tante volte.

Le figlie hanno attraversato l’adolescenza senza problemi, poiché hanno potuto vivere in famiglia  la perdita del papà e di tutto ciò che essa comportava.

Purtroppo, quando invece l’aiuto non c’è e i familiari sono soli, è maggiore il rischio per i figli di sentirsi messi da parte. In questi casi, prima o poi, arriverà il bisogno di elaborare quel tempo.

Nei momenti che segnano una crescita, come per esempio iniziare l’università o il lavoro, sposarsi, avere il figlio che va alla scuola media, inaspettatamente la persona si sentirà turbata da pensieri sul passato, o sulla morte. Allora inizierà a percepirsi fragile,  incapace dinnanzi i nuovi cambiamenti nella sua, fino a sentirsi depressa o in ansia irragionevolmente!

Allora è un gran bene, quando il Medico di Famiglia o lo Psichiatra non solo riconoscono nella forte sintomatologia la necessità di un percorso psicoterapeutico, ma aiutano il paziente a farne richiesta.

La psicoterapia è un percorso per addentrarsi insieme nel passato che interferisce  nel presente e lo disturba poiché vuole essere elaborato. E’ sempre bellissimo riconoscere il rifiorire alla vita dopo aver potuto assimilare quel dolore, custodire la relazione e trasformarlo in una nuova vita.

 

Uno sguardo psicologico sulla politica italiana

Pochi giorni fa, mentre molti tra noi cittadini vivevamo spensierati un tempo di vacanza, liberi da impegni e scadenze, avveniva “un divorzio politico”.  Di ritorno a casa la situazione era mutata radicalmente, stava nascendo un nuovo governo, una nuova unione tra chi si era odiato e attaccato pesantemente per anni. Ci veniva chiesto di credere che l’acqua e l’aceto possono mescolarsi!

Questo status, presentato come “novità” è arrivato come una doccia fredda; ha suscitato un certo sgomento, un’incredulità iniziali. L’inimmaginabile e l’impossibile era avvenuto. Non abbiamo nemmeno avuto il tempo per crederci, o per farci delle domande che il “nuovo governo” era nato.

Ormai la crisi è superata, tutto continua a evolvere così velocemente che già attendiamo i fatti.

Dilaga la parola trasformismo; come il camaleonte che cambia colore per sopravvivere e trasformarsi è una sua competenza, sviluppata nel tempo, per adattarsi al ambiente in cui vive.

Invece, considerando i modi e i tempi del cambiamento non sarebbe più appropriato dire ambiguità? Nel suo significato di ciò che è suscettibile di varie interpretazioni; l’atto di manipolare, utilizzare, tradire, svalutare coloro i quali avevano dato loro la fiducia.

Abbiamo davvero elaborato tutto? Continuiamo a provare la stessa considerazione che avevamo di loro prima? Il diluirsi inaspettato e veloce delle identità, la permeabilità dei  contenuti, la ferocia verbale, lo stravolgimento dell’alleanza con i rispettivi elettori saranno aspetti psicologici marginali?

Il malessere sociale ha sempre determinato e caratterizzato le forme delle sofferenze psicologiche. Oggi , il principio che si può fare tutto quello che si vuole, che non ci sono limiti, è socialmente condiviso e approvato in tutti gli ambiti e nelle nostre modalità relazionali. Bisogna correre, essere opportunisti, aggressivi, il prezzo è la desensibilizzazione e la solitudine.

Per esempio, soffermarsi su ciò che abbiamo provato dinnanzi la fine di un governo e la nascita di un altro nel giro di 20 giorni ad alcuni può sembrare assurdo: è già acqua passata. Non succede per caso qualcosa di simile quando una persona si ammala gravemente, una coppia si separa improvvisamente, qualcuno che conosciamo bene muore, e tutto il dolore si supera in un mese al massimo?

La fine di relazioni significative, senza previe discussioni, confronti e negoziazioni, avviene apparentemente senza tanta sofferenza. Non c’è lo spazio per piangere, per litigare, per chiarire. Figli e familiari subiscono la perdita. Cosa essa comporterà, cosa si sentirà e come cambieranno le relazioni e il vivere non viene considerato! Tuttavia, anche dopo anni, per molti, tutto il dolore e l’indicibile si è trasformato in un disagio psicologico che, può trovare la sua comprensione e una possibilità di elaborazione al interno di un processo psicoterapeutico.

La società ci invita a non assimilare, cioè a non ascoltare ciò che proviamo, ciò che sentiamo dinnanzi ogni esperienza che ci interpella come esseri di relazione, costituiti dai legami affettivi, dagli incontri veri.

L’ambiguità dei nostri politici, tra ciò che fanno e quello che dicono, ha generato ambivalenza; cioè sentimenti opposti. Noi abbiamo provato incredulità, diffidenza, svalutazione e loro ci convincono a sentire fiducia;  sicurezza e che scelgono per “il nostro bene”.

Come psicologa provo una sinistra inquietudine. Sottovalutare la perdita di credibilità  che l’ambiguità genera, è molto distruttivo. Si inaridiscono la linfa della fiducia, dell’appartenenza, del incontro e si alimenta lo scetticismo, il disimpegno, l’arido individualismo.

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